Covid-19: trattamento con vitamina D in pazienti con comorbidità diminuisce decessi e trasferimenti in terapia intensiva

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Redazione
20/01/2021 - 06:37

Un team di ricercatori, che ha coinvolto l’Università di Parma, l’Università di Verona e gli Istituti di Ricerca CNR di Reggio Calabria e Pisa ed è stato guidato dal professor Sandro Giannini del Dipartimento di Medicina dell’Università di Padova, ha pubblicato sulla prestigiosa rivista Nutrients il primo studio (Effectiveness of In-Hospital Cholecalciferol Use on Clinical Outcomes in Comorbid COVID-19 Patients: A Hypothesis-Generating Study) che evidenzia scientificamente come la somministrazione di vitamina D in soggetti affetti da Covid-19 con comorbidità abbia potenziali effetti positivi sul decorso della malattia.

Diversi lavori sono stati, ad oggi, condotti a livello internazionale sul ruolo immunomodulatore della vitamina D, che parrebbe svolgere una funzione protettiva verso agenti infettivi. Tuttavia, non vi sono attualmente molte informazioni su come la vitamina D possa influire sull’insorgenza ed il decorso della malattia nota come Covid-19. Molti lavori scientifici hanno associato l’ipovitaminosi D a una maggiore esposizione alla malattia ed alle sue manifestazioni cliniche più aggressive. Poco era, invece, noto sugli effetti dell’assunzione di colecalciferolo (vitamina D nativa) in pazienti già affetti da Covid-19. Una recente ricerca francese aveva suggerito che la terapia con colecalciferolo, assunta nei mesi precedenti il contagio, potesse favorire un decorso meno critico in pazienti anziani fragili affetti da Covid-19.

«La nostra è stata una ricerca retrospettiva condotta su 91 pazienti affetti da Covid-19, ospedalizzati durante la prima ondata pandemica nella Area Covid-19 della Clinica Medica 3 dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. I pazienti inclusi nella nostra indagine, di età media di 74 anni, erano stati trattati con le associazioni terapeutiche allora adoperate in questo contesto e, in 36 soggetti su 91 (39.6%), con una dose elevata di vitamina D per 2 giorni consecutivi. I rimanenti 55 soggetti (60.4%) non erano stati trattati con vitamina D», spiega il professor Sandro Giannini, primo firmatario dello studio.

La scelta del medico di trattare i pazienti era stata essenzialmente basata su alcune caratteristiche cliniche e di laboratorio: avere bassi livelli nel sangue di vitamina D al momento del ricovero; essere fumatori attivi; dimostrare elevati livelli di D-dimero ematico (indicatore di maggiore aggressività della malattia); presentare un grado rilevante di comorbidità.

Lo studio aveva l’obiettivo di valutare se la proporzione di pazienti che andavano incontro al trasferimento in Unità di Terapia Intensiva e/o al decesso potesse essere condizionata dall’assunzione di vitamina D. Durante un periodo di follow-up di 14 giorni circa, 27 (29.7%) pazienti venivano trasferiti in Terapia Intensiva e 22 (24.2%) andavano incontro al decesso. Nel complesso, 43 pazienti (47.3%) andavano incontro a “Decesso o Trasferimento in ICU (Intensive Care Unit”.

L’analisi statistica rivelava che ilpesodelle comorbidità (rappresentate dalla storia di malattie cardiovascolari, broncopneumopatia cronica ostruttiva, insufficienza renale cronica, malattia neoplastica non in remissione, diabete mellito, malattie ematologiche e malattie endocrine) modificava in modo ampiamente significativo l’effetto protettivo della vitamina D sull’obiettivo dello studio, in modo tale che maggiore era il numero delle comorbidità presenti, più evidente era il beneficio indotto dalla vitamina D.

«In particolare, nei soggetti che avevano assunto il colecalciferolo, il rischio di andare incontro aDecesso/Trasferimento in ICUera ridotto di circa l’80% rispetto ai soggetti che non l’avevano assunto. Il nostro lavoro dimostra, quindi, il potenziale effetto benefico della somministrazione della vitamina D in quei pazienti affetti da Covid-19 che, come molto spesso accade, presentano rilevanti comorbidità ed indica l’opportunità di condurre studi appropriati a conferma di questa ipotesi», conclude il professor Giannini.

 

Foto di copertina: Pixabay

 

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