
Città giardino: quando la natura è a portata di mano

Inquinamento, caos, sovraffollamento e grigiore: problemi antichi ma sempre attuali che affliggono le nostre metropoli. Come risolverli e trasformare gli insediamenti urbani in città verdi, sostenibili e a misura d'uomo? Una prima soluzione al problema si ritrova già agli inizi del ‘900 con l’utopica “città giardino”, ideata, anche se solo in minima parte, dall’inglese Ebenezer Howard. Un modello unico di perfezione che univa i vantaggi della vita urbana contemporanea con i piaceri della vita agreste, ma che nei fatti si rivelò un esperimento fallimentare. Le nuove “città verdi” divennero nei fatti nient’altro che dei quartieri satellite (come il quartiere Montesacro a Roma, Milanino nei pressi di Milano e il quartiere Marano di Napoli) dipendenti dalle metropoli limitrofe, spesso scollegate e soggette all’abbandono da parte della popolazione e all’incuria. Nella maggior parte dei casi la vicinanza con i grandi centri ha finito per inglobare al loro interno le città giardino, in altri casi le ha rese delle borgate-dormitorio.
Ma negli anni non è mai sparito il sogno di una città verde, in cui architettura e natura vivono in simbiosi, dove grandi spazi urbani permettono all’uomo di vivere a stretto contatto con l’ambiente, ma senza rinunciare agli innumerevoli comfort della contemporaneità. È proprio sulla scia di questo desiderio di città sostenibile che sono stati realizzati in tutto il mondo progetti improntati ad una maggiore connessione con l’ambiente, tra cui spicca il Bosco Verticale realizzato a Milano dallo studio Boeri e vincitore del premio “International Highrise Award”, promosso dal Museo di Architettura di Francoforte. Con i suoi 900 alberi e 2.000 piante da fiori ha contribuito al rimboschimento metropolitano e al controllo dell’espansione incontrollata della città. Ciò nonostante il suo nuovo modo di abitare in stretta connessione con la natura resta al momento appannaggio dei ceti abbienti, capaci di sostenere gli esosi prezzi di vendita degli appartamenti all’interno del complesso residenziale (arrivati fino a 15mila euro a metro quadro).

Altro grande progetto che vedrà la luce nel 2019 è il Garden bridge, l’ambizioso ponte-giardino sospeso sul Tamigi, con numeri da capogiro: 367 metri di lunghezza, 270 alberi e 2.000 rampicanti piantati per 6.000 metri quadri di estensione e 175 milioni di sterline per realizzarlo. Eppure nonostante lo stupore che questi dati suscitano e l’insindacabile bellezza ed unicità del progetto firmato dallo studio Heatherwick (con il verde curato dal landascape designer Dan Pearson), il giardino pensile londinese ha già suscitato critiche più o meno accese tra i cittadini britannici. Da un lato sono emerse diverse perplessità riguardanti l’eccessivo costo del progetto; il fatto che una parte cospicua dello stesso (60 milioni per l’esattezza) provenga dal denaro pubblico, in un periodo di austerità e interrogativi post Brexit; e che attualmente sia stata raccolta solo la metà della cifra che il fondo privato, la Garden Bridge Trust, si era impegnata a recuperare. Ma ancor più forte è il dubbio che nasce considerando la natura artificiosa e spettacolare di progetti come questo o come lo Sky Garden, il giardino pubblico in cima al grattacielo Walkie Talkie di Londra.
Spesso la volontà di rinverdire le nostre città, di ricreare un forte legame con la natura, è dettata anche dalla continua ricerca di clamore e visibilità delle stesse realtà urbane. La gara alla notizia più virale, alla foto più cliccata, all’esperienza più richiesta rischiano di mettere ancora più in pericolo il nostro habitat, nonostante le migliori intenzioni che si celavano e si celano tuttora dietro il concetto della città giardino. Le nuove e sfavillanti aree verdi devono mantenere come fine principale la sostenibilità urbana, declinata nei suoi tre ambiti di riferimento: economico, sociale e ambientale. Non è sufficiente, o sicuramente producente, realizzare esclusivamente delle nuove costruzioni green, che se da un lato vantano una spiccata sostenibilità ambientale, dall’altro non sono che il frutto di un’ulteriore edificazione, e che rischiano con la loro vocazione spettacolare di essere difficili da mantenere (sia economicamente che ecologicamente) nel lungo periodo.

Modello virtuoso da includere invece tra le best practices nell’ambito della progettazione green è sicuramente l’High Line, il parco newyorkese realizzato su una sezione in disuso della ferrovia sopraelevata della Grande Mela. Un’area verde realizzata utilizzando uno dei tanti scheletri (o elefanti bianchi, come sono chiamati dagli inglesi) del boom dell’edilizia, recuperando e riqualificando una zona abbandonata. Stesso criterio sostenibile è stato adottato anche nel rinverdire la vecchia linea ferroviaria tramite l’utilizzo di piante spontanee: delle 210 varietà presenti molte di queste sono state scelte tra quelle che spontaneamente avevano già colonizzato la railway durante i suoi anni di abbandono. Un parco che ha così necessità di una gestione semplificata (poche potature ed irrigazioni, nessuna concimazione ed utilizzo di pesticidi) e che si auto propaga per seme, senza necessità di ingenti cure colturali. In questo progetto, più dimesso e meno da copertina, si ritrova realmente il significato e lo scopo utopistico della città giardino: eliminare il dissidio città vs campagna e proporre uno stile di vita a contatto con una natura reale, lontana dai giochi estetici, quasi crudeli, di manipolazione botanica.
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