Una storia triste, una storia emblematica di umiliazione verso le donne
Oggi voglio raccontarvi una storia che parla di mancanza di rispetto per la persona, per la malattia, per tutto quello che essa rappresenta.
È una storia di oggi, e nella sua sconcertante quotidianità è emblematica nel rappresentare un modo di essere considerati, da parte di un’istituzione.
C'è una donna che, dopo aver subito ben due interventi chirurgici per un tumore e aver percorso per intero tutto il cammino della chemioterapia e della radioterapia, viene chiamata dall'Istituto Nazionale Previdenza Sociale per la visita di revisione dell'invalidità civile.
Si presenta, dunque, armata di una bella quantità di carte, di referti, cartelle cliniche, visite di ogni genere.
Viene fatta accomodare e si trova davanti ad una piccola commissione che naturalmente le pone alcune domande.
Tutto normale, tutto legittimo, poi, ad un certo punto, uno di loro, con un tono quasi imperioso, dice:
«Signora, dobbiamo vedere il suo seno».
La donna resta un attimo interdetta, pensa, ma se hanno davanti tutte queste carte...
Insistono e lei si guarda intorno e chiede: «Ma dove?».
«Qui», rispondono come se fosse la cosa più naturale del mondo doversi spogliare in un angolino ricavato mettendo un vecchio paravento davanti ad una finestra, attaccato ad un muro sporco e scrostato, pieno di polvere tutto intorno, senza un appoggio per metterci sopra i vestiti.
Pensava, povera illusa, che per fare una “visita” sarebbe stato logico ed opportuno che vi fosse un luogo idoneo, pulito, un lettino con il suo bel lenzuolino di carta appena messo.
Si sente offesa la donna, mortificata dall'essere trattata senza alcun rispetto, senza una vera considerazione della persona con una malattia, ma soltanto un numero da sbrigare al più presto.
Ovviamente, questa donna manifesta tutta la sua indignazione, ma dall'altra parte nessuna risposta, soltanto una difesa alla loro funzione, le dicono che bisogna farlo sennò sono licenziati.
Neanche la donna presente proferisce parola, abbassa gli occhi, ma non ha il coraggio di dire che effettivamente trattare così le persone è terribilmente offensivo, oltre che privo di qualunque empatia.
Eppure queste persone sono medici!
Si spoglia dietro questo paravento, attenta a non toccarlo con nessuna parte del corpo, tenendo in mano la camicia, offrendo alla vista le sue cicatrici, affinché confermassero quanto già scritto e raccontato.
Che brutta sensazione, che squallore quella stanza, quanta polvere e disinteresse.
Viene liquidata velocemente, la salutano, lei si alza, e mentre va via, uno di loro le dice “Auguri”, forse un estremo tentativo di essere partecipe, di cercare di mettere un cerotto, per un nuovo dolore procurato con un’indifferenza, un’insensibilità, una noncuranza che viene fuori tutta, che fa comprendere come chi è dall'altra parte a giudicare lo fa soltanto per guadagnare qualcosa.
Questa è una storia quotidiana, questa offesa alle persone avviene ogni giorno, e i protagonisti sono persone le più diverse tra loro, giovani, anziani, ma tutti accomunati da un percorso di malattia, sempre grave, difficile e spesso al limite della possibilità del vivere.
Che tristezza, un lutto ulteriore, nessuna umanità.
La donna esce, cerca di recuperare la calma, cerca di far volar via, insieme al vento del pomeriggio, la sensazione di sporco e di vergogna che le è rimasta addosso.
Entra in un bar vicino, ordina un caffè, si guarda allo specchio che ha davanti, e sorride.
Sorride perché è ancora viva, perché ha voglia di fare mille cose, perché la stupidità umana non deve essere un vincolo alla sua esistenza, perché nessuno deve permettersi di farla sentire come se fosse una cosa senza un’anima.
Cetty Moscatt