Otto aprile 1978: ventitreesimo giorno dalla strage di via Fani e dal rapimento di Aldo Moro

Autore:
Santi Maria Randazzo
11/04/2024 - 03:30

L’8 aprile 1978 Aldo Moro esterna, in una lettera inviata al suo assistente Francesco Tritto e requisita alla Polizia, il suo convincimento di correre il serio rischio di essere sacrificato per ragioni politiche ed avverte Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini delle gravi conseguenze che ciò avrebbe comportato.

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L’8 aprile 1978 è il ventitreesimo giorno dalla strage di via Fani e dal rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978, allorché gli Italiani furono informati dalla voce, rotta dall’emozione, del giornalista del GR2 Cesare Palandri che, poco dopo la strage di via Fani, alle ore 9.15 così narrò il tragico evento: «Gentili ascoltatori, siete collegati con la redazione del GR2. Interrompiamo le trasmissioni per una drammatica notizia che ha dell’incredibile e che, anche se non ha trovato finora conferma ufficiale, purtroppo sembra sia vera. Il presidente della Democrazia Cristiana, Onorevole Aldo Moro, è stato rapito poco fa a Roma da un commando di terroristi [...]».

Stefania Limiti nel suo libro L’Anello della Repubblica. La scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal Fascismo alle Brigate Rosse (chiarelettere, 2009) avanza il sospetto che i Servizi Segreti Italiani sapessero in anticipo cosa sarebbe accaduto il 16 marzo 1978 in via Fani e cita l’inspiegabile ed inspiegato avviso diffuso da Renzo Rossellini dai microfoni dell’emittente romana, Radio Città Futura, con cui aveva annunciato, poche ore prima del suo accadimento, l’agguato di via Fani. Lo stesso episodio viene riportato dagli autori Vincenzo Marini Recchia e Giuseppe Zupo nel loro libro Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale (Franco Angeli, 1984).

Dopo il sequestro di Aldo Moro le BR avviano una strategia tendente, di fatto, a costringere lo Stato ad accettare una trattativa per l’apparente finalità di liberare l’ostaggio, ma che come principale obiettivo aveva l’ottenimento del riconoscimento politico dell’organizzazione terroristica. La risposta politica delle istituzioni italiane e dei partiti fu diversificata anche se prevalse la linea dura imposta soprattutto dalla Democrazia Cristiana, pur con delle momentanee aperture al dialogo che, però, non fu mai portato fino in fondo emergendo il non interesse alla liberazione di Moro che venne delegittimato nel suo ruolo politico-istituzionale, adducendo varie motivazioni fra cui quella prevalente sembrava apparire la non autonomia mentale che caratterizzava la condizione del sequestrato.

Ma Moro era perfettamente lucido e fu capace di gestire per un periodo estremamente lungo, tenendo conto della condizione in cui si trovava, un rapporto interattivo sia con le BR sia con il mondo politico italiano. Ma, come è stato sostenuto da vari autori, quali Miguel Gotor, Stefania Limiti, Giovanni Fasanella, Ferdinando Imposimato, Sandro Provvisionato ed altri, nessuno voleva realmente che Moro tornasse libero. La consapevolezza di essere stato condannato a morte induce Moro, senza alludere direttamente a fatti e comportamenti, a far emergere questa sua convinzione attraverso il messaggio diretto a Francesco Cossiga e Benigno Zaccagnini, contenuto nella lettera indirizzata al suo assistente Francesco Tritto, avvertendo che la sua morte avrebbe avuto gravi conseguenze.

Giulio Andreotti l’8 aprile aveva annotato nel suo diario: «[...] A Ciampino viene Cossiga, ma purtroppo non ci sono novità. Alle 20 la Polizia intercetta una telefonata, arriva a piazza Augusto Imperatore prima del professor Tritto [assistente di Moro] a cui era diretta, e trova una lettera indirizzata alla famiglia. I giuristi del ministero vorrebbero dare l’originale al magistrato e una copia alla moglie, ma prevale il nostro buon senso per il contrario. La lettera è del giorno prima e non oltre perché fa riferimento a un articolo de Il Giorno di ieri. Inizia con grande affetto familiare. Ripete poi la tesi dello scambio dei prigionieri con l’esilio della controparte. Deplora la frettolosità con la quale il governo ha fissato la sua linea dura. Lamenta che la DC sia tutta succube di questa linea, favorevole al comunismo integrale. Il suo sangue ricadrà su Cossiga e Zaccagnini. Invita la moglie a convocare i morotei (cita Vittorio Cervone, Elio Rosati e Renato Dell’Andro) perché si distacchino da questa finta unanimità. È ancora più duro con il Vaticano, avendo letto l’articolo di don Levi [Virgilio Levi, all’epoca vicedirettore dell’Osservatore Romano]. Si definisce prigioniero di guerra, perché la guerra c’è. Invita a sentire Ugo Poletti, per una linea diversa dello SCV [Stato della Città del Vaticano]. Dice che non aderire allo scambio significherebbe assumersi il peso di una strage di Stato».

Quest’ultimo avvertimento non può non indurre a porsi il problema di quale sia stato il ruolo dei servizi segreti nel rapimento di Aldo Moro. Sempre Giulio Andreotti il 9 aprile annota sul suo diario: «A casa Moro vanno alcuni morotei (certamente Rosati) e il cardinal Poletti, che si reca subito dopo dal Papa. Da parte nostra quid agendum? Si può intraprendere una missione esplorativa che coinvolga il partito (ai fini dell’intesa con la famiglia) senza provocare dubbi e sconquassi politici e al tempo stesso ottenere la liberazione di Moro? [...]».

 

Foto in copertina: Comizio di Aldo Moro a Barletta

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