
Cuccìa, dal grano Margherito una delizia della tradizione siciliana

In Sicilia, da tempo immemorabile, il 13 dicembre, per la festa di Santa Lucia, è l'occasione giusta per gustare la cuccìa, un piatto della tradizione popolare a base di grano duro che viene condito nei modi più disparati: dolce soprattutto nella Sicilia nord-occidentale, salata nella Sicilia sud-orientale. Con il miele o con olio e sale, ma anche in brodo, o con la ricotta o con i legumi, è un piatto straordinario da assaporare caldo o freddo. La preparazione della cuccìa richiede tempo, perché il grano duro va ammollato per circa tre giorni e grattato nelle antiche tegole di cotto, i cosiddetti “coppi”, per privare i chicchi del tegumento.
Negli anni la tradizione della cuccìa, proprio per i tempi di preparazione, è divenuta sempre più rara tanto da rischiare di perdersi.

Questa felice intuizione è della famiglia Sammartino di Caltagirone, proprietaria dello storico Molino Crisafulli che costituisce un raro esempio di archeologia industriale perché ha mantenuto attive le macchine realizzate dalle altrettanto storiche Officine Reggiane, nate nel 1901, che nel 1920 aggiunsero la produzione di macchine per mulini, pastifici e zuccherifici a quella di locomotive, vagoni, tram e vetture.
A Giuseppe Sammartino abbiamo chiesto di raccontarci questa storia affascinante.

Giuseppe Sammartino, con orgoglio, ci tiene a precisare che «il grano duro molito al Molino Crisafulli è grano duro siciliano, varietà Simeto e Margherito, per la maggior parte conferito dai soci della stessa Cooperativa».
La Molino Crisafulli è, infatti, azienda di produzione e trasformazione. Coltiva e trasforma grani siciliani e, da qualche tempo, pure canapa per uso alimentare sempre nel rispetto dell'ambiente, quindi senza fare ricorso a glifosato e pesticidi, ma secondo le regole della agroecologia. Anche i produttori che forniscono al Molino le farine coltivano con le stesse regole e utilizzano concimi biologici forniti dalla famiglia Sammartino.
Ma la famiglia Sammartino ha un obiettivo ben più ambizioso della sola salvaguardia e perpetuazione della tradizione della cuccìa legata al culto di Santa Lucia: consacrare la cuccìa come piatto tradizionale da gustare in tutte le stagioni arricchito con i condimenti più disparati: con legumi e brodo di verdure o carne o come piatto freddo in insalata con salsiccia, formaggi e verdure (cliccare qui per la ricetta che abbiamo pubblicato nella rubrica A Tavola).

E tra coloro a cui i Sammartino hanno sottoposto i loro piatti a base di cuccìa c'è Bruno Barbieri, noto chef, che ne ha apprezzato il sapore durante un contest di cucina organizzato a Caltagirone.
«Quest'anno, a causa della emergenza sanitaria legata alla epidemia da Covid-19, al Molino Crisafulli non si potrà tenere come ogni anno la tradizionale Festa della Cuccìa, in occasione della quale tutti sono graditi ospiti della famiglia Sammartino perché offriamo gratuitamente le nostre specialità a base di cuccìa per diffondere la cultura gastronomica più antica della Sicilia. La nostra azienda, con lo stesso spirito, ha offerto cuccìa pronta da gustare in occasione di eventi pubblici e nelle scuole per diffondere la conoscenza di questo piatto della tradizione popolare siciliana. Con piacere ha più volte contribuito a raccolte a scopo di solidarietà».
Come è nata la tradizione di mangiare la cuccìa per Santa Lucia? A noi piace raccontarlo con una antica preghiera in lingua siciliana tramandata per generazioni e generazioni dai nonni che la recitavano ai nipotini.
Foto: Archivio Molino Crisafulli Società Cooperativa Agricola a r.l.
IL MIRACOLO DI SANTA LUCIA
Mi rissi me nanna, quann'era nica:
“Ora ti cuntu 'na storia antica”.
'Ncapu li ammi mi fici assittari
e araciu araciu si misi a cuntari:
“Ci fu 'na vota, a Siracusa
'na caristìa troppu dannusa.
Pani 'un cinn'era e tanti famigghi
'un n'arriniscìanu a sfamari li figghi.
Ma puru 'm menzu a la disperazioni
'un ci mancava mai la devozioni
e addumannavanu a Santa Lucia
chi li sarvassi di la caristìa.
Un beddu jornu arrivau di luntanu
rintra lu portu siracusanu
'na navi carrica di furmentu
a liberalli ri 'ddu tormentu.
Pi li cristiani la gioia fu tanta
chi tutti vuciavanu “viva la Santa!”,
picchì fu grazii a la so 'ntercessioni
ch'avìa arrivatu 'dda binirizioni.
Tutti accurrìanu a la marina,
ma era furmentu, 'un n'era farina
e cu 'u pitittu ch'un facìa abbintari
'un c'era tempu di iri a macinari.
Pi mettisi subitu 'n'sarvamentu
avìanu a cociri lu stessu furmentu
e pi la forma “a coccia” ch'avìa
accuminciaru a chiamalla “cuccìa”.
La bona nova arrivau luntana
e pi sta màrtiri siracusana
fu accussì granni la venerazioni
chi fici nasciri 'na tradizioni.
Passau lu tempu di la caristìa
e arristau l'usanza, pi Santa Lucia,
di 'un fari pani, di 'un cociri pasta,
e di manciari la cuccìa e basta.
Ma lu sapemu, ci voli picca
e l'usanza di scarsa addiventa ricca.
A ognunu ci vinni la bedda pinzata
di priparalla chiù elaborata.
Cu ci mittìa lu biancumanciari
e cu vinu cottu ci vosi 'mmiscari.
Cu ci vulìa lu meli ri ficu
e tanti atri cosi chi mancu ti ricu.
Ma je vulissi sapiri, a la fini,
di runni spuntaru li beddi arancini?
E m'addumànnu di quali manu
nasceru panelli e risattianu”.
E a mentri chi me nanna si sfirniciàva,
a mia 'u stommacu mi murmuriava
e mi ricordu chi ci avissi rittu:
“Me nanna, zittemuni ch'haiu pitittu!”
Morale: a storia insegna
ca si stainnata esageri
nun jè cchiù devozione ma manciunaria...
Mi disse mia nonna quand'ero bambina:
“Ora ti racconto una storia antica”.
Sulle sue gambe mi fece sedere
e adagio adagio ha cominciato a raccontare:
“C'è stato un tempo, a Siracusa,
una carestia troppo rovinosa.
Non c'era pane e tante famiglie
non riuscivano a sfamare i figli.
Ma nonostante la disperazione
non mancava mai la devozione
e chiedevano a Santa Lucia
di salvarli dalla carestia.
Un bel giorno arrivò da lontano
nel porto siracusano
una nave carica di frumento
a liberarli da quel tormento.
Per i cristiani la gioia fu tanta
che tutti gridavano “viva la Santa!”,
poiché fu grazie alla sua intercessione
che c'era arrivata questa benedizione.
Tutti correvano alla marina,
ma era frumento, non era farina
e con la fame che non lasciava riposare
non c'era tempo per andare a macinare.
Per mettersi subito in salvo
dovevano cuocere il frumento
e per la forma a “chicchi” che aveva
cominciarono a chiamarlo “cuccìa”.
La buona notizia arrivò lontana
e per questa martire siracusana
fu così grande la venerazione
che fece nascere una tradizione.
Passò il tempo della carestia
e rimase l'usanza, nel giorno di Santa Lucia,
di non fare pane, di non cuocere pasta,
ma di mangiare la “cuccìa” e basta.
Ma lo sappiamo, basta poco
che l'usanza da scarsa diventa ricca.
A qualcuno venne la bella idea
di prepararla più elaborata.
Chi ci aggiungeva il biancomangiare (un tipo di crema bianca)
e chi voleva mischiare il vino cotto.
Chi voleva aggiungere il miele di fico
e tante altre cose che neanche ti dico.
Ma io vorrei sapere, alla fine,
da dove sono spuntati i begli arancini?
E mi domando da dove sono spuntate
le panelle e le crispelle di riso”.
E mentre mia nonna si dilungava,
a me lo stomaco borbottava
e mi ricordo di averle detto:
“Nonna smettiamo di parlare che ho fame!”
Morale: la storia insegna
che se oggi esageri
non è più devozione ma ingordigia...
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