Essere donna, in carcere

Autore:
Redazione
09/03/2016 - 09:50

Sopravvivere all’interno del sistema carcere è di per sé faticoso e complesso, ma se ci soffermiamo per un momento ad immaginare cosa significhi per una donna essere detenuta, la questione diviene ancora più spinosa. «Di questo pianeta (il carcere, ndr) tutti pensano di sapere tutto esattamente come la Luna senza esserci mai stati»¹: le donne recluse, infatti, vivono la carcerazione subendo privazioni subdole e inutili che ne minano sia la femminilità, sia la sfera affettiva che la salute (queste ultime, come vedremo, con aggravanti maggiori rispetto agli uomini).

Una prima osservazione va fatta sulla privazione della femminilità: alle detenute non è permesso di tenere con sé quei banali oggetti che noi riteniamo “indispensabili” come accessori, cosmetici, specchietti, pinzette per le sopracciglia e così via, e se a questo aggiungiamo che molte di queste donne, provenienti da contesti di marginalità sociale, hanno spesso subito maltrattamenti o abusi domestici, queste privazioni appaiono ancora più insensate ed inadeguate. Il carcere come svuotamento dell’Anima*, della parte femminile di ogni essere vivente, al di là del sesso biologico.  

Ancora più devastante è la deprivazione affettiva, sia per gli uomini che per le donne, l’astinenza sessuale, il mancato rapporto con il partner, ma per le donne in particolare il distacco coatto dai figli è, a dir poco, straziante: i bambini restano con le madri fino ai tre anni, trascorrendo tra sbarre, cancelli, frastuono di blindi che si chiudono e si aprono come gabbie feroci i primi anni di vita (quanto costerà loro tutto questo vissuto? L’approccio ad un mondo di divisione e separazione), per poi essere strappati letteralmente dalle loro madri. Figli colpevoli di madri colpevoli. Uno stato di cose dove tra vittime e carnefici scende una nebbia molto fitta… E in effetti la risposta delle strutture e dei servizi di sostegno che permettano alle madri di scontare la pena fuori e di agevolarne il reinserimento è ancora troppo carente.

Non ultimo, il delicato problema sanitario prettamente femminile: proteggere la femminilità significa superare le vergognose difficoltà ad introdurre saponi per l’igiene intima, ed assicurare servizi sanitari adeguati di ginecologia e di pediatria per tutelare la maternità e l’infanzia dei bambini.

Nei miei incontri con le donne recluse ho visto volti stanchi di vivere, e anche arrabbiati: stanchi e arrabbiati nei confronti di un sistema che non accoglie, non ascolta i più fragili. In occasione di un 8 marzo, organizzammo un rinfresco con delle detenute: le loro mani si precipitarono sul cibo: erano affamate. Le loro storie narravano miseria, mancanza di sussidi sociali, destini coatti e lontananza dai figli.

Mi sono chiesta: cosa possiamo fare? Cosa posso fare? Ho parlato con loro, ho cercato di capire.

«Ma la mia persona appare di poco interesse in questo calderone di personalità, destini, deviazioni nel quale sono immersa. Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie, dagli ambienti fin dalla culla, restiamo larve anemiche […], a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell’altro non si è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio».²

E poi, in silenzio, di fronte ai loro vestiti consunti e ai loro volti sfiduciati, mi sono risposta: «Non c’è redenzione in questo luogo!»³

 

¹ L’università di Rebibbia, Goliarda Sapienza, Rizzoli ² Ibidem ³ Ibidem *Anima con A maiuscola in senso junghiano

 

A cura di Antonella Speciale, scrittrice, volontaria negli istituti penali per minori e adulti dove svolge laboratori di scrittura autobiografica e creativa, si occupa principalmente di Alta Sicurezza. La sua ultima opera è Il futuro sarà di tutta l’umanità. Voci dal carcere, Dissensi edizioni, 2015.

 

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